"Sono passati dieci anni dal
tragico naufragio avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 aprile
2015 al largo delle coste libiche, in cui persero la vita oltre
1.100 persone. Una delle più gravi tragedie del Mediterraneo,
che ha scosso l'Europa e il mondo intero. Oggi, a distanza di un
decennio, la memoria di quel disastro dovrebbe imporre una
riflessione collettiva e un'azione concreta". E' quanto si legge
in una nota diffusa dal Comitato 3 ottobre che torna a
sollecitare l'identificazione delle vittime dei naufragi
avvenuti nel Mediterraneo. "Non possiamo permettere che
rimangano solo numeri. È un imperativo morale, oltre che un
obbligo giuridico, identificare le persone migranti morte in
mare e restituire loro un nome, una dignità, una storia. Ogni
essere umano ha diritto ad essere riconosciuto, anche dopo la
morte".
"Siamo ancora fermi al 3 ottobre 2013, al naufragio di
Lampedusa" spiega Tareke Bhrane, presidente del Comitato. "Non
c'è una norma che disciplini la raccolta dei dati, non c'è un
database unico, non ci sono indicazioni chiare e uniformi che
dicano alle Questure come comportarsi, contrariamente a quanto
avviene, per esempio, nel caso di un corpo trovato per strada".
Proprio per questo motivo il 10 aprile scorso al Parlamento
europeo di Bruxelles il Comitato ha lanciato una proposta di
legge insieme ad Asgi e Labanof che prevede l'adozione di misure
concrete e strutturate : "l'armonizzazione delle procedure
nazionali per la gestione delle persone scomparse e dei cadaveri
non identificati; la creazione di un database europeo;
l'istituzione di un organismo centrale europeo incaricato di
coordinare le attività di identificazione; il supporto diretto
alle famiglie; la garanzia di sepolture dignitose e
tracciabili".
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