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La grande solitudine

La grande solitudine

di Yasmina Khadra

02 luglio 2014, 21:46

Redazione ANSA

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Che mi succede?

La mattina, quando mi guardo allo specchio, ho l’impulso di girarmi per vedere chi c’è alle mie spalle. Non mi riconosco più. Chi è la persona che ho di fronte, che fa le smorfie quando le faccio io, che si rade quando mi rado io e che si volta dall’altra parte quando distolgo lo sguardo? Spesso mi capita di chiedermi se davvero sono sveglio o se sto ancora sognando.
In realtà quello che non riconosco più è il mondo di oggi.
C’è stato un tempo in cui mi sentivo l’ombelico della terra. Interpretavo tutto in funzione dei miei desideri, e desideravo tante belle cose. Pensavo di essere utile al prossimo e mi adoperavo affinché nel mio altruismo non si aprisse la minima crepa. La gioia di un bambino, il successo di un amico, la promessa di un sindaco o il giuramento di un alleato mi riempivano di fiducia nel futuro. Mi piaceva credere che fosse possibile rendere felice la gente, condividere una festa, essere solidale con i cantori di buona volontà e attenti nei riguardi di chi non ha voce in capitolo: ho scelto di fare lo scrittore per prestare la mia voce a chi non ha diritto di parola, di fare il poeta per riscattare le speranze imbavagliate dalle sconfitte, di essere uomo per potermi inquadrare in tutto ciò che è umano, cioè fragile, vulnerabile e magnifico al tempo stesso.


Com’è possibile che oggi dubiti dei miei propositi? Che cosa è successo perché da un giorno all’altro i miei capisaldi diventassero traballanti e i miei voti irricevibili?
Per attenuare l’angoscia provo convincermi che è solo colpa mia, ma invano. Io non c’entro niente. Non sono cambiato di una virgola, non mi sono spostato di un millimetro, eppure tutto mi appare sotto una prospettiva falsata. Quando apro la finestra, la strada mi volta le spalle. Quando ascolto la musica, sento solo il frastuono assordante degli interrogativi che mi fanno perdere il filo dei miei pensieri. Allora combatto lo smarrimento uscendo da casa e dirigendomi a passo lento, con le mani in tasca, verso il Trocadero; e lì a un tratto Parigi mi dà la prova lampante che la mia depressione non è contagiosa. I turisti si godono il sole sulle terrazze. Le ragazze sono più belle di un cielo stellato e i ragazzi sembrano giovani divinità. Avanzo sul piazzale che si estende ai piedi della tour Eiffel, mi immergo nella folla che si diverte, mi perdo tra i visitatori che si bombardano di foto, mi sorprendo a incantarmi con i bambini che saltellano rincorrendosi come passeri. I miei interrogativi battono in ritirata davanti alle risate che risuonano all’unisono col gorgoglio delle fontane zampillanti, mi sento quasi felice.


Scendo le scalinate che portano ai giardini, mi siedo su una panchina e trascorro ore e ore a osservare il viavai dei passanti. Sono in migliaia a dirigersi verso i monumenti, a grappoli fitti, a coppie suggellate da baci leggendari, a gruppetti, oppure soli con i propri pensieri. Mi accorgo che, nonostante le guerre e le crisi finanziarie, nonostante le demoralizzanti prime pagine dei giornali e i catastrofistici servizi televisivi, il mondo sta bene. Talmente bene che lo prego di portarmi via con sé. Ma non mi muovo dalla mia panchina. Sono ai margini di quel viavai, ai margini della buona salute del mondo.
Mi rendo conto di non essere più il centro dell’universo: ormai mi limito a gravitare alla periferia di ciò che una volta era mio. Voglio capire che cosa mi succede; non riesco a collocarmi da nessuna parte.
E poi a un tratto batto le mani ed esclamo: «Ma sì, è tutto chiaro! Sono fuori di me, e dunque fuori dal mondo, perché i miei poeti non sanno più sussurrarmi parole dolci all’orecchio e riportarmi all’infanzia».
Perché sono stati i poeti a tenere desta la mia capacità di stupirmi di tutto come un bambino. Sono stati i poeti a insegnarmi ad amare un santo di ogni religione, un’usanza di ogni cultura. Sono stati i poeti a farmi scoprire che potevo reinventarmi una felicità sotto le fronde gli alberi, la sera, mentre il sole spariva dietro le montagne.


Ora capisco perché il mondo di oggi sembra volermi piantare in asso, relegarmi tra le assenze, perché il mio universo si è spopolato, perché la mia solitudine è fredda e profonda come un abisso.
È perché mi sento orfano dei miei poeti d’un tempo.
Erano il mio centro di gravità.
Erano il mio equilibrio.
Poiché il poeta esultava, l’uomo era il centro del mondo.
Ora che il poeta è ammutolito, l’uomo si perde alla periferia di se stesso.
Nel tumulto della globalizzazione, le voci sane vengono sopraffatte dalla cagnara degli impostori.
Eppure, quando la malinconia minaccia di abbattermi, mi basta evocare il ricordo della mia foresta, laggiù a Koléa, per ritrovarmi accanto ai miei compagni di scuola e sorprendermi a declamare i versi di Neruda quasi fossero uno scongiuro contro le avversità della sorte.


La prima volta che ho sentito parlare di Pablo Neruda è stato all’inizio degli anni Settanta alla scuola cadetti di Koléa – una scuola militare, inizialmente destinata ad accogliere gli orfani della guerra di Liberazione, poi aperta ai figli degli ufficiali e infine a tutti i giovani algerini. Disponevamo di professori di prim’ordine, perché il regime ci teneva a fare di noi l’élite del domani. Tra i nostri insegnanti c’era un rifugiato politico spagnolo di nome Dingra. Era un tipo schivo e mingherlino, sempre riservato, quasi scialbo, ma quando ci parlava di Pablo Neruda nei suoi occhi si accendeva il sacro fuoco della passione. Nutriva una venerazione assoluta nei confronti del poeta. Benché si professasse ateo, per lui Neruda era più che un profeta, era una divinità a tutti gli effetti.
Tra noi cadetti, io e qualcun altro preferivamo i versi alle armi. Nelle ore libere andavamo nella foresta che circondava la scuola, e lì, nascosti nel folto degli alberi, aprivamo i nostri libri e sparivamo dal pianeta. Viaggiavamo su tappeti volanti attraverso universi romanzeschi, fremendo insieme ai personaggi e dissetandoci alla fonte di belle citazioni, folgorati da improvvise illuminazioni. Ma erano letture individuali, vivevamo la passione letteraria ciascuno per proprio conto. A volte però ci capitava di condividere qualcosa, per esempio la poesia. Mi ricordo che improvvisavamo veri e propri certami al riparo degli alberi e declamavamo versi a squarciagola facendo scappare gli uccelli.


Le poesie di Pablo Neruda tornavano spesso nelle nostre scelte. Per la semplice ragione che in quell’epoca di rivoluzioni eravamo più affascinati dall’impegno militante che dalle rime melodiose. Neruda era una sorta di mentore che dava spessore ai nostri giuramenti di soldatini. Adoravamo la sua lucidità capace di risvegliare le coscienze e nutrivamo il suo stesso disprezzo nei riguardi della stupidità e dell’insensatezza. All’epoca sognavo di diventare poeta. Ogni volta che aprivo una raccolta firmata Neruda mi ritrovavo a cercarvi non il suo genio, ma la via d’accesso alla mia maturità. Neruda faceva cadere le maschere, mandava in frantumi i pregiudizi, demistificava i preconcetti e ci istruiva sulla realtà degli uomini e delle cose con strabiliante imparzialità. Non gli piaceva l’ipocrisia, svelava l’inconsistenza delle vanità, riconduceva gli Icari sulla terra, ricordava a tutti quanti la necessità di essere se stessi in ogni circostanza e di trovare la propria strada nelle avversità.


Credo che la mia fede nell’Uomo venga da Pablo Neruda. Forse perché ai miei occhi incarnava la quintessenza della saggezza. Era sincero come il giuramento di uno scout, e nello stesso tempo aveva una forza di carattere inaudita. Le sue poesie non andavano recitate, ma intonate come inni. Là dove metteva il dito, le piaghe si cicatrizzavano. Neruda aveva il dono del Cristo, resuscitava in noi i sogni morti. È grazie a lui che conservo vivi i miei sogni. C’è da dire che nell’Algeria degli anni Settanta tutti i sogni erano permessi, nessuna sfida ci intimidiva. Eravamo giovani e pieni di speranze per il nostro Paese, e prendevamo per oro colato qualsivoglia mirabolante promessa. Come dubitare del futuro, se Neruda ci iniziava alle trappole che ci aspettavano, fornendoci le armi per sventarle? Era il tempo delle anime pure, della parola sacra e dei gesti generosi. Ogni verso di Neruda suonava come un versetto.


Che dire invece del mondo di oggi? Che cosa è rimasto dell’eredità lasciata dal poeta? Domande a cui si può rispondere solo con un sospiro. Quando se n’è andato, Neruda ha portato via con sé la magia del verbo, la rettitudine d’intenti e il codice del fattore umano. Oggi il genio è sospettato di tutti i mali, il talento viene messo in quarantena e i certami oratori riecheggiano di spudorate adulazioni e reciproci scambi di favori. Il mondo dei poeti è pieno di lettere all’antrace e di lettere di credito; le luci della ribalta illuminano i ciarlatani e oscurano il vero talento per farlo marcire nel buio. Ormai i network e le lobby hanno soppiantato l’Accademia: sono loro a decidere che cosa è bello e che cosa è brutto – stiano in guardia i cantori imprudenti.
Qual è dunque il posto dell’Uomo in un mondo in cui il poeta è morto? Che cosa ci si può aspettare dalle coscienze se sono incarnate da chi non ne ha?
«Scienza senza coscienza è solo rovina dell’anima» recita l’adagio. Che dire allora dell’uomo senza coscienza e senz’anima se non che rappresenta la fine dei sogni e dei risvegli? Che senso ha il mondo, se il suo centro è privo di consistenza, se il pedante soppianta l’erudito, se la consorteria ha la meglio sul talento? Dopo aver imparato a guardare la Luce negli occhi, imparo a diventare daltonico. Ciò che ho amato dell’uomo ora mi angoscia e mi deprime. Credevo nella bellezza delle cose, oggi i lifting e i travestimenti si arrogano la dignità del sublime. La menzogna cadenza la marcia inesorabile delle derive, il chiasso occupa abusivamente lo spazio dell’intelletto e nel silenzio dei poeti echeggia la cacofonia degli uomini.


L’Umanità ha barattato le proprie responsabilità con una miserabile rinuncia. Si adatta a ciò che le conviene e allontana ciò che la disturba. Da quando ha affidato il proprio libero arbitrio ai ciarlatani non è più in grado di difendere alcun valore. Si nutre di calunnie come i fallimenti si nutrono del vizio. L’autodafé la esalta come un fuoco di bivacco e il martirio dei suoi prodigi non la commuove più.
No, l’uomo non è più l’agente aggregante delle sue aspirazioni. Non è più l’asse attorno al quale gravitano le sue speranze. Ha voltato le spalle al poeta per guardare in faccia la notte.
Poiché mi rifiuto di essere un semplice ostaggio di preconcetti, poiché non sopporto di somigliare a una ritrattazione, poiché mi vieto di credere anche solo per un istante che le brutture siano più forti della bellezza, ho scelto di essere poeta. Se i miei versi sono insignificanti, la fiamma che mi arde dentro basta a rendermi felice. Non lascerò che sia la mediocrità a decidere della mia sorte.
Allora scrivo… Scrivo con la forza della disperazione… Scrivo con le mie viscere… Scrivo per mantenere vivi gli ultimi barlumi che ci restano, perché la Valle delle tenebre non ci assorba come una spugna funesta. Scrivo per resistere alle turbolenze di un’epoca ingrata e pericolosa, per continuare a credere, a dispetto delle tante delusioni, che niente è definitivamente perduto.
Scrivo perché l’uomo torni a essere il cuore del suo mondo.
Scrivo perché il poeta resusciti in ciascuno di noi.
Per me Neruda è il faro che continuerà a illuminarmi quando oscure trame cercheranno di indurmi al vizio. Mi rifiuto di rinunciare ai canti che hanno cullato la mia adolescenza, mi rifiuto di pensare che quella malia non tornerà più. A volte, tra le mie fibre sensibili, mi capita di percepire il tocco del poeta e mi dico che, dopotutto, la gioia è una mentalità e che ogni persona sulla faccia della terra è posta davanti a una scelta: essere il becchino dei propri sogni o l’artefice della propria felicità. Chi avrà scelto il poeta come guida saprà trovare all’inferno la sua parte di paradiso.

Yasmina Khadra
(traduzione di Marina Di Leo)

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