(di Paolo Petroni)
ILARIA ROSSETTI, "LA FABBRICA
DELLE RAGAZZE" (BOMPIANI, pp. 308 - 19,00 euro) - Un romanzo
vero, moderno, a cominciare dai temi, le morti sul lavoro
innanzitutto, poi la guerra, con un bel ritmo, colpi di scena,
cambi di prospettiva e un racconto quasi corale con echi
classici nell'atmosfera e la scrittura, appena venata di
dialetto, leggera e incisiva nella concretezza del suo sguardo
realista e poetico, controllato e senza un filo di retorica,
sull'asprezza della vita e la capacità di resistergli.
E' l'ultima opera (in selezione per il Premio Strega) di una
scrittrice, vincitrice del Campiello Giovani nel 2007, poi
autrice di alcuni romanzi, tra cui il notevole "Le cose da
salvare" del 2020, capace di scegliere momenti esemplari,
tragici, per raccontare un pezzo della storia del nostro paese,
i cui avvenimenti di parlano anche del presente, di persone
vinte ma che non si piegano, che non riescono o non vogliono
dimenticare.
Si parte dal recupero della storia vera dell'esplosione, il 7
giugno 1918, della fabbrica di munizioni Sutter & Thévenot di
Bollate (di cui parlerà Ernest Hemingway, che partecipò ai
soccorsi, nel racconto "Storia naturale dei defunti") che fece
59 vittime (in appendice sono riportati tutti i loro nomi e
l'età), molte delle quali praticamente scomparse, perché ridotte
a brandelli, tra uomini e una grande maggioranza di giovani
donne.
Tra queste si seguono le diverse storie di Emilia Minora
(nome vero di una delle scomparse) e poi di Clementina Colombo
ricostruendole con la libertà e la creatività del narratore, ma
dando risalto in particolare alle figure e al dolore dei
genitori della prima, Martino e Teresa Minora, contadini dai
sentimenti profondi vissuti con pudore e ritrosia e dalla vita
misera e aspra, relativamente ai quali, ma non solo, nasce la
domanda: "Perché le guerre, quando finiscono, non finiscono mai
per tutti?". Domanda che appunto riguarda coloro che ne sono
rimasti segnati, ma che qui si allarga a tutto, acquistando un
valore esistenziale, metaforico, oltre a quello più letterale
relativo alla Grande Guerra, di cui si raccontano gli ultimi
mesi e la fine, nel 1918, tra Bollate, le campagne intorno e
Milano, unite dal fiume Seveso, percorse da ragazze e uomini in
bicicletta
Con queste, mentre la fabbrica riprende subito la produzione
utile alla guerra, che procede indifferente alle morti che si
lascia dietro, si intrecciano altre vicende umane, da quella del
soldato Corrado, che diserta per una illusoria storia d'amore,
al carabiniere Ernesto Fumagalli detto Drumedari che gli dà la
caccia, al farmacista di Bollate o la povera Clementina,
stuprata dalla guerra, e molte altre minori, in un affresco
coinvolgente di una realtà articolato e ricco nel rendere conto
dei fatti ma assieme di come le persone li elaborano per
sopravvivere bene o male, in un mondo in cui ''se le cose non
vogliono più stare al loro posto, se non possono più stare al
loro posto, allora come si fa?''.
Ecco quindi che la bella creatività della Rossetti gioca coi
sogni e con la realtà, spiazza il lettore e lo riacchiappa
portandolo a partecipare alla sofferenza di Martino, che vuol
restare solo sul fiume col suo dolore e si incontrerà con la
vita drammatica di quel periodo, o ai sentimenti di rancore in
cui si chiude Teresa (tutto simbolicamente concentrato in un
uovo non consegnato e schiacciato a terra), due che ''se
avessero conosciuto le parole per fare esistere quel dolore e
condividerlo, avrebbero potuto girarsi sul fianco e guardarsi
negli occhi''.
Un romanzo in cui si sentono lontani echi manzoniani, da
quella impossibilità, per la violenza della storia, di vivere la
propria vita secondo i propri desideri, all'arrivo a Milano di
Martino e Corrado, o l'attenzione ai paesaggi attorno, perchè di
un vero grande romanzo affresco tradizionale si tratta, ma
riscritto e visto con sapienza, occhi e una struttura e
scrittura moderna, precisa, ben ritmata, senza una parola, un
aggettivo di troppo, con una sua concretezza (''Il risucchio
della minestra si unisce ai rumori della sala, voci levate e
silenzi solitari, il cigolio delle sedie, la porta che sbatte'')
anche nella scelta di vocaboli particolari (''La sardana
sanguinaria della guerra'') e della vita contadina, come in
certe elencazioni in crescendo che trovano la propria forza
espressiva nel loro aggregarsi.
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