(di Mauretta Capuano)
Aveva tre anni Lidia Maksymowicz
quando è stata deportata su un carro bestiame, insieme alla sua
giovane madre, nel campo nazista di concentramento di
Auschwitz-Birkenau. E' finita nella "baracca dei bambini" da
dove prendeva le sue cavie il dottor Joseph Mengele e della
madre, che aveva aderito alla resistenza bielorussa e per questo
era finita nel lager con la figlia, avrebbe poi ricordato per
anni solo le mani da cui prendeva qualche briciola di cibo
quando di notte con grande coraggio lei strisciava di nascosto
per portarle da mangiare.
"Mengele ci utilizzava per i suoi esperimenti pseudo-medici.
Sceglieva i bambini belli, forti, soprattutto i gemelli. Io ero
una tra le cavie più piccole. Mi ricordo gli effetti di questi
esperimenti. Ci facevano delle iniezioni in laboratori vicino ai
forni crematori. Ci prelevavano il sangue e ci facevano delle
infusioni negli occhi per farli diventare azzurri. Molti
perdevano la vista, a me non è successo perché avevo già gli
occhi azzurri e sono stata risparmiata. Quando tornavamo nelle
baracche avevamo la febbre altissima perché su di noi testavano
anche vaccini delle case farmaceutiche tedesche. Pochi restavano
vivi e sui corpi di quelli che morivano facevano le autopsie e
prelevavano gli organi" racconta all'ANSA la Maksymowicz a Roma
con 'La bambina che non sapeva odiare. La mia testimonianza'.
Scritto con il vaticanista Paolo Rodari, il libro esce per il
Giorno della Memoria, pubblicato da Solferino, con la prefazione
di Papa Francesco che Lidia incontrerà per la seconda volta per
l'udienza del 26 gennaio dopo quella del 2021 in cui ha mostrato
al Santo Padre il suo braccio tatuato con il numero 70072 e il
Papa lo ha baciato.
"Ho interpretato quel gesto come un omaggio a tutti i
bambini, non soltanto a me, che in diverse circostanze hanno
perso la vita durante la seconda guerra mondiale. Il 26 gennaio
lo incontrerò durante l'udienza del mercoledì. Fino alla morte
non mi scorderò di questa straordinaria opportunità che ho
avuto. Papa Francesco è una persona speciale. Il suo
comportamento stupisce sempre. Non mi aspettavo la prefazione
del Papa al mio libro, nell'edizione polacca c'è una frase in
copertina di Papa Francesco con la sua firma" racconta.
Da quell'incontro è nata, con Paolo Rodari, l'idea di questo
libro che ha un messaggio di Liliana Segre e un altro di Sami
Modiano e un commovente inserto di foto in bianco e nero.
"Insieme abbiamo deciso di raccontare la mia esperienza perché
finora sono stati scritti libri di superstiti adulti, mentre la
storia dei bambini è stata sempre tralasciata. Non bisogna
dimenticare che soltanto ad Auschwitz-Birkenau sono morti oltre
200 mila bambini" dice la Maksymovicz. E spiega che la sua
testimonianza non è una "creazione della fantasia. Potrebbe
sembrare frutto della mia immaginazione perché ero una bambina,
troppo piccola per ricordare, ma quello che racconto è
riscontrato in molti studi. Tra le ricerche più recenti una che
spiega come bambini che hanno avuto grandi shock da piccoli
ricordano quei momenti. Ho ritrovato molte cose anche nella
testimonianza dell'assistente ungherese di Mengele in un
documento in cui c'è anche una lista con il mio numero. Quello
che si vede andando a vistare Auschwitz non rispecchia
minimamente quello che abbiamo passato là" sottolinea Lidia che
oggi ha 81 e vive a Cracovia.
Per molto tempo non è riuscita a raccontare quello che le era
accaduto, come sia sopravvissuta e stata salvata da una famiglia
adottiva polacca e come sia sta grande l'emozione a 21 anni di
ritrovare, dopo 17 anni, anche la madre, pure lei sopravvissuta,
che non ha mai smesso di cercarla ma le divideva la cortina di
ferro.
"Nascondevo questo numero che ho sul braccio, lo coprivo,
d'estate soprattutto, perché mi vergognavo e non volevo che
qualcuno mi chiedesse chiarimenti" racconta Lidia che è stata
per 13 mesi ad Auschwitz ed è la la bambina che è vissuta più a
lungo nel campo. "Poche donne potevano sopravvivere e aiutare i
loro bambini perché si espandeva il tifo. Mia mamma lo ha avuto
due volte ma era così forte che è sopravvissuta. Aveva 23 anni
quando è terminata la guerra. Io ero molto disciplinata perché
venivo da una casa di partigiani. C'erano bambini che
piangevano, urlavano, io mai. Sapevo nascondermi bene quando
entrava lo staff del dottor Mengele. Avevo un posticino dietro
il calcestruzzo e mi ricordo gli scarponi lucidi degli ufficiali
che entravano nella baracca. Tra noi bambini non c'era amicizia,
solidarietà, ma solo una sopravvivenza animalesca. Mia mamma mi
ha sempre cercato ma c'era la cortina di ferro, i messaggi non
passavano dall'altra parte. Ha sofferto molto" dice la
Maksymowicz, che è attiva testimone in Italia con La memoria
Viva e mantiene un dialogo ininterrotto con i giovani a cui
rivolge un appello: "Il futuro è nelle vostre mani. Non dovete
permettere che si ripetano quelle pagine della storia, quegli
orrori". Spesso i ragazzi e le ragazze che incontra al Museo
Galicja a Cracovia e al Museo di Auschwitz-Birkenau le chiedono
se prova odio e desidera la vendetta e lei sempre risponde "se
fosse così soffrirei molto di più. Tutto quello che è successo
è avvenuto perché sono stati calpestati il bene e l'amore".
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