(di Paolo Petroni)
Dei testa a testa verbali violenti,
dei corpo a corpo per una forte fisicità cui tutto è improntato
a cominciare dalla recitazione, un tutto contro tutti è la
realtà della famiglia che mette in scena Eleonora Danco con
questo suo ''Bocconi amari - Semifreddo'' sino a domenica 16
febbraio al Teatro Vascello di Roma, che lo produce, assieme al
Metastasio di Prato. Si tratta di due pranzi a distanza di
vent'anni, due feste di compleanno, prima quella della madre e
poi, scomparsa lei, quella del vecchio padre con i tre figli,
Paola giovane disturbata e i fratelli quarantenni Luca e Pietro,
alle prese con un proprio quotidiano irrisolto .
Ci sono qui le belle invettive vitali, un'intima furia,
mentre manca quella ribellione col racconto diretto di disagi e
follie cui la Danco, col suo porsi sempre all'assalto, senza
tirarsi indietro, ci aveva abituato, mossa da un'energia
rabbiosa, con una fisicità e flusso di parole che sgorga
vulcanico e si scarica sul pubblico, coinvolgendolo col proprio
gioco autodistruttivo e, alla fine, di violenza impotente,
nell'esibizione e verbalizzazione di un disagio assoluto, che
trova la propria forza nel riuscire ad essere quotidiano e
esistenziale assieme.
E' quel che accade anche qui, in questo aspro scontro
famigliare, che però questa volta rimane eguale dall'inizio alla
fine, nella prime e nella seconda parte, senza una reale
evoluzione nonostante i venti anni passati, così che non c'è
crescita e questo spaccato di solitudini violente non prende
vera vita, si esibisce senza coinvolgere e rivelarci qualcosa di
più assoluto, come accadeva invece in tanto teatro di questa
donna, da ''Intrattenimento violento'' a ''dEVERSIVO'', per non
citare i suoi lampeggianti e temporaleschi assolo.
Bella invenzione è quella del padre che come monito e
sottolineatura incisiva cita l'inizio dell'Inferno dantesco sino
a ''Ahi quanto a dir qual era è cosa dura'', ma non basta per
rendere esemplare quel che accade. Il problema, oltre alla
costruzione della pièce che appare una tranche de vie senza
prima e senza dopo che spieghino quella realtà così immanente, è
forse il linguaggio che è forte, violento, molto ritmato ma
schematico, senza quella magmaticità che conoscevamo, capace
anche di strappare una risata, teatralmente giocato tra prosa e
scrittura in versi, tra denuncia e confessione, dal ritmo
ossessivo, con rime e assonanze, giochi di parole e libere
associazioni, magari anche tra italiano e romanesco.
La Danco posta su Istagram foto in cui lei è schiantata,
spiaccicata a terra in un supermercato o per strada, sulla
banchina di una stazione o su una spiaggia, sono la sintesi di
una poetica, di una disperata solitudine e bisogno d'amore,
d'attenzione da parte di un mondo dalla violenta indifferenza.
Sono questi anche i personaggi di questi due tempi famigliari
giocati attorno a un tavolo cui si siedono e abbandonano
continuamente, un po' anche loro immobilizzati in una
situazione, cui verso la fine non riescono a aggiungere molto
alcune brevi, non sempre chiare, visioni di quelli che paiono
momenti, immagini più serene di fanciullezza dei due uomini,
invecchiati e polverosi, imbiancati, e non della ragazza, nella
seconda parte ridotta inopinatamente a una sorta di mummia,
quasi un coccodrillo che si muove su rotelle.
Per sé l'autrice e regista sceglie il personaggio maschile
del padre, quasi solo rabbioso nella sua impotenza, mentre la
madre sempre sconfitta è Orietta Notari, i due figli Lorenzo
Ciambrelli e Federico Majorana e la sorella animale è Beatrice
Bartoni, applauditi alla fine.
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