Il piano era pronto: a maggio un massiccio bombardamento aereo avrebbe martellato l'Iran per una settimana, aprendo la strada all'infiltrazione di gruppi di commando per portare a termine l'operazione, far saltare in aria i siti nucleari iraniani. Ma all'ultimo minuto, il presidente Donald Trump e il suo team hanno fermato tutto, annunciando l'intenzione di riaprire il negoziato con Teheran sul suo programma nucleare.
Le rivelazioni del New York Times, sulla scorta di numerose confidenze di fonti anonime collegate alla vicenda, arrivano alla vigilia dell'incontro di Roma, dove sabato l'inviato speciale statunitense Steve Witkoff e il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi tenteranno di riannodare i fili del negoziato. Trump, interpellato dai giornalisti nel corso dell'incontro con la premier Giorgia Meloni alla Casa Bianca, non ha confermato i piani militari, anzi ha enfatizzato la possibilità di arrivare a un'intesa. L'Iran però "non può avere un'arma atomica, è molto semplice", e se non ci sarà l'accordo "per loro si metterà male", ha avvertito.
Intanto, per facilitare i colloqui, il capo dell'agenzia atomica internazionale (Aiea) Rafael Grossi è sbarcato a Teheran: "Siamo in una fase cruciale di queste importanti negoziazioni, sappiamo che abbiamo poco tempo, ecco perché sono qui", ha detto il responsabile, che prima di partire per la capitale iraniana aveva avvertito che l'Iran "non è lontano" dal possedere una bomba atomica, "hanno i pezzi e forse un giorno potrebbero rimetterli insieme".
Secondo le fonti di intelligence citate dal Nyt, la Repubblica islamica potrebbe sfornare almeno 6 ordigni nucleari "in qualche mese, al massimo un anno". Per questa ragione il governo di Benyamin Netanyahu, forte dell'indebolimento iraniano conseguente alla decimazione della leadership di Hezbollah e alleggerito dalla caduta di Bashar al Assad che ha interrotto la linea di rifornimento da Teheran al Libano, aveva ordito il piano per colpire i siti nucleari.
Un'operazione che l'esercito dello Stato ebraico può portare a termine solo con l'aiuto e il benestare di Washington, e le armi americane dispiegate a difesa di Israele nel caso di una inevitabile rappresaglia iraniana. Non solo: senza l'ausilio dei satelliti spia Usa e dei bombardieri la strada per i soldati dell'Idf sarebbe in salita, e il successo finale non assicurato.
In una prima fase la proposta israeliana sembrava aver trovato consenso negli Stati Uniti, in particolare nei centri di comando militare che hanno già dispiegato nell'area i bombardieri B-2 e due portaerei, la Carl Vinson nel Mar Arabico e la Harry S. Truman nel Mar Rosso, ufficialmente per le operazioni contro gli Houthi in Yemen ma - scrive il Nyt - "anche nell'ambito del potenziale piano per sostenere Israele nella guerra con l'Iran".
A inizio aprile è però arrivata la doccia fredda per Netanyahu: il capo dello U.S. Central Command, il generale Michael Kurilla, nel corso di una visita a Tel Aviv ha informato i responsabili militari che la decisione della Casa Bianca era quella di mettere in pausa l'operazione. Il 3, il premier israeliano ha chiamato Trump, ma il presidente Usa si sarebbe rifiutato di discutere dell'operazione telefonicamente, invitando Netanyahu a Washington. Visita arrivata a stretto giro, il 7 aprile, ufficialmente per discutere dei dazi, in realtà del blitz contro gli iraniani.
Nel colloquio il tycoon avrebbe comunicato al premier il suo no, in vista dei negoziati con l'Iran che ha poi annunciato mentre Netanyahu era ancora fisicamente alla Casa Bianca. Il piano, per ora, resta tale, ma per non rimanere con le mani in mano Cia e Mossad avrebbero avuto luce verde per intensificare le operazioni segrete contro gli scienziati e gli impianti iraniani.
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